
31 Gen C’è un giudice a Perugia ma sempre un giudice è
Sono rimasto estremamente colpito dalle reazioni suscitate dalla lettura del dispositivo della sentenza di secondo grado emessa dalla Corte di Assise di Appello di Roma nel processo per la morte di Marco Vannini.
Non certo per quella dei familiari, che come spesso accade in vicende simili finiscono per rigenerare il dolore già vissuto proprio attraverso le fasi processuali, scandite da ritualità del tutto scollegate alle emozioni umane, alla fine fatalmente tradite.
E neppure dal contegno del presidente della Corte che faticosamente cercava di terminare la lettura del dispositivo, trascinato dallo strepito dell’aula ad affermazioni, forse secche, ma non certo impensabili, se si osserva e si ascolta ciò che davvero è accaduto in quei momenti concitati.
Mi hanno invece notevolmente stupito due cose.
La prima è l’immediata coagulazione di una corrente d’opinione, amplificata da noti e autorevoli esponenti dell’informazione nazionale, secondo la quale la conclusione dei Giudici romani – anche di quelli popolari, perché si era in Corte d’Assise – è all’evidenza frutto di una ri-valutazione in mala fede dei dati processuali, proditoriamente diretta ad attenuare le responsabilità dell’imputato principale, che per le sue relazioni professionali dovrebbe aver goduto della torbida protezione dei soliti “apparati”.
L’altra è stata la decisione del Guardasigilli pro tempore di affidare il suo pensiero sul punto ad un video-messaggio, col quale ha voluto far conoscere al mondo la sua indignazione per l’infelice ammonimento del Presidente della Corte sull’ormai famoso giro a Perugia.
Il ministro, infatti, nella sostanza rimprovera il magistrato per non aver utilizzato gli altri poteri a sua disposizione per mantenere l’ordine – far buttare fuori dall’aula i familiari che urlavano la loro insoddisfazione? Farli arrestare? – anziché trascendere in una battuta, detta solo dopo le tanto comprensibili quanto insistite proteste dei familiari, che stavano di fatto rendendo impossibile la lettura della sentenza.
La sensazione che si ricava è che pure il ministro, pur non potendolo dire, ritenga per qualche ragione la decisione in sé sbagliata, al punto da sentire il bisogno di chiamare la madre della vittima e scusarsene.
Ancora una volta, mi sarei aspettato un rigore e un distacco diverso dai rappresentanti delle Istituzioni, che dovrebbero salvaguardare tutti: vittime, magistrati e – chissà perché mai considerati – pure gli imputati, che di un processo penale dovrebbero essere i reali protagonisti.
Se qualcuno pensa che la sentenza sia sbagliata perché frutto di un’errata elaborazione di prove e/o scorretta applicazione di norme giuridiche, operi, per quanto può, affinché il meccanismo delle impugnazioni corregga la stortura.
Se qualcuno pensa che la decisione sia stata il frutto avvelenato di interferenze indebite, indaghi, lo dimostri e agisca di conseguenza.
Tutto il resto è solo inutile vociare che si aggiunge alla canea.