avv. PAOLINO ARDIA | Pensieri dal coprifuoco
Dopo il discorso seminotturno del Presidente del Consiglio - un bel tranquillante per conciliare il sonno degli italiani - che annunciava un'ulteriore stretta alle libertà civili di noi tutti, l'inquietudine da CoVid-19 si è fatta, se possibile, ancora più forte...
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Pensieri dal coprifuoco

Pensieri dal coprifuoco

Dopo il discorso semi notturno del Presidente del Consiglio – un bel tranquillante per conciliare il sonno degli italiani – che annunciava un’ulteriore stretta alle libertà civili di noi tutti, l’inquietudine da CoVid-19 si è fatta, se possibile, ancora più forte.
Appare sempre più chiaro, infatti, che si andrà incontro a un periodo di restrizioni sempre più incisive e per un periodo consistentemente lungo, comunque indefinito.
In questo contesto, rispondere alle domande, insieme ingenue e terribili, di mia figlia, che mi chiede “papà, quando andiamo a prendere un gelato? Quando vado all’asilo? Andiamo al mare?“, non è difficile: è semplicemente impossibile.
Anche per questa ragione, avverto il montare dell’insofferenza e dello scetticismo sulla reale utilità di tali misure, che sono in realtà davvero draconiane; da ieri sera, ad esempio, la mia libera professione non è più tale, essendo stata imposta la serrata agli studi professionali (e lasciamo stare per un attimo il fatto che il decreto “Cura Italia” non abbia previsto neppure una suppostina per i milioni di professionisti iscritti agli albi, che il discorso porterebbe troppo lontano).
Allora: è davvero necessario chiudere una nazione per fronteggiare la pandemia?
La risposta a questa domanda dovrebbero darla, in primo luogo, gli scienziati che da anni studiano problemi simili e che dovrebbero essere gli unici autorizzati a commentare le curve del contagio e i tassi di mortalità della malattia. Ma una parte del problema sta proprio nei dati che i tecnici hanno a disposizione, giacché pare di comprendere – da un lato – che si ha un’idea assai vaga del numero dei contagi effettivi presenti sia nelle zone dei focolai più caldi, sia, più in generale, sull’intero territorio nazionale; dall’altro lato, l’ISS non ha ancora fornito dati certi in grado di discriminare – ammesso che la distinzione abbia un reale significato sul piano logico ed etico – fra le morti da e con Coronavirus.
Su queste basi, è più utile allarmarsi, guardando al dato della mortalità italiana, che vorrebbe il CoVid-19 letale per quasi l’8% dei contagiati (un numero terrificante) e giustificando ogni misura – anche la più severa – diretta a contrastarne la diffusione whatever it takes; oppure è più ragionevole pensare che, se si aggiungesse ai contagiati ufficiali la cifra nera di coloro che non hanno ricevuto, per le ragioni più varie, una diagnosi definitiva a seguito di tampone ma che sono verosimilmente positivi, la base rispetto alla quale calcolare il coefficiente di letalità sarebbe tanto alta, da ricondurre i dati sulla mortalità a quelli della tanto declamata influenza stagionale?
Ovviamente non ho una risposta da dare, ma posso provare a ragionare a voce alta per formarmi un’idea, assumendo come veri fatti e circostanze di cui si è molto scritto in questi giorni, accantonando il sospetto del Truman Show pandemico.
Se il CoVid-19 avesse, in definitiva, lo stesso impatto di una banale influenza, non riuscirei in alcun modo a spiegare perché – secondo quanto affermato dalle autorità locali – nella città di Bergamo, ad esempio, si sarebbe passati da 5/6 decessi al giorno di media, ai picchi raggiunti in questi giorni, che hanno visto praticamente decuplicare i dati, al punto da rendere necessario l’intervento dell’esercito per smaltire i feretri in altri comuni; l’immagine della colonna militare che esce dalla città sintetizza il concetto senza necessità di indugiare oltre.
Inoltre, leggendo i numeri – per quanto grezzi e parziali – quotidianamente offerti dalla protezione civile, un dato balza all’occhio ed è quello che, a fronte di una platea di circa 59.000 contagiati con sintomi significativi (dati di poco fa), quasi 20.000 sono ricoverati in ospedale e, di questi, circa 3.000 sono in terapia intensiva.
Ciò vuol dire che un numero straordinariamente alto di persone che contrae il virus effettivamente non muore, ma solo perché riceve un trattamento invasivo e lungo – non si sa con quali effetti collaterali sul lungo periodo – all’interno di reparti ospedalieri specializzati. Per intenderci: senza tre settimane di intubazione, Mattia, il famoso paziente-1, un atleta di 38 anni a breve padre di famiglia, non sarebbe qui a raccontare la sua storia.
Questi mi paiono elementi da soli sufficienti a far comprendere la gravità della situazione e la reale necessità di contenere la propagazione di questo virus che parrebbe assai contagioso, con ogni mezzo lecito e ragionevole, comprese le misure un po’ a singhiozzo di questi giorni.
Quindi tutti usi a obbedir tacendo, senza fare una piega e senza nessun accento polemico?
Non proprio.
In questi giorni, ciascuno di noi ha il dovere civico di rispettare le regole che vengono stabilite dai governanti, per arginare l’epidemia e fare in modo che si possa quanto prima tornare a una pseudo-normalità ed evitare che un intero sistema economico e sociale vada in frantumi.
Detto questo, arriverà il momento di domandare perché il Governo abbia dichiarato lo stato di emergenza il 31 gennaio di quest’anno e, di fatto, non si sia adottata nessuna misura precauzionale fino a marzo inoltrato.
Bisognerà spiegare come mai, nelle settimane tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo, si incitavano i cittadini a continuare la loro vita di sempre, banalizzando gli effetti della malattia e della sua eventuale diffusione.
Nessuno aveva raccolto dati dalla Cina sulla reale evoluzione della patologia? Possibile? Allora perché dichiarare lo stato di emergenza? Nessuno ha elaborato protocolli diagnostici specifici? Perché ci si è dovuti affidare all’intuito di una giovane dottoressa di Codogno per porre la diagnosi sul paziente-1?
Ricordo l’insistenza con la quale certi virologi diventati famosi come rock star – a buon diritto – gridavano a gran voce, inascoltati, la necessità di imporre la quarantena a tutti coloro che rientravano dalla Cina o dai viaggi internazionali; all’epoca sembravano richieste folli, oggi sembrano ovvie, ma fatalmente tardive.
Sono solo alcuni degli interrogativi che dovranno trovare risposta quando la tempesta sarà placata. Il fatto che siamo tutti ai domiciliari forzati, perlomeno, offrirà il tempo per predisporre delle risposte meditate.